Talks

Cristina Celestino

Designer e architetto

"Per mia inclinazione preferisco ricorrere a materiali e tecniche tradizionali per ottenere poi risultati dall'estetica contemporanea e inaspettata"


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Architetto per formazione e designer per vocazione, Cristina Celestino è uno dei talenti emergenti del design italiano. Dopo la laurea allo IUAV di Venezia e le prime collaborazioni, nel 2009 si trasferisce a Milano dove fonda il brand Attico Design: lampade e arredi caratterizzati dalla sperimentazione sui materiali e sulle forme. Nel 2012 partecipa al Salone Satellite, un’esperienza che le consente di entrare nel circuito delle gallerie e degli showroom internazionali. Parallelamente ai progetti di Attico, Cristina Celestino disegna per privati e per aziende.
Nel 2016 ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria “Salone del Mobile.Milano Award”. Mentre quest’anno ha vinto il premio EDIDA (Elle Deco International Design Awards) per la collezione Plumage disegnata per Botteganove.

 

Dopo aver mosso i primi passi come architetto, nel 2010 ha scelto la strada del design, ci racconta come è maturata questa decisione e cosa l’ha spinta a fondare Attico?
È avvenuto tutto in maniera spontanea e naturale. Nel corso dei miei studi di architettura mi sono appassionata agli interni e agli arredi su misura disegnati dai grandi architetti e ho iniziato ad avvicinarmi sia allo studio del design sia al collezionismo. La mia visione era ed è quella di un architetto: creo i miei pezzi sempre in relazione a una mia idea di spazio interno.
Dopo la laurea ho cominciato a disegnare arredi per gli interni che progettavo e a seguirne direttamente la produzione. La svolta è avvenuta con il trasferimento a Milano e con la collaborazione con lo studio Sawaya & Moroni. Entrare in contatto con il mondo che ruota intorno al prodotto di design - dalle aziende ai progettisti, dagli studi di styling-fotografia ai giornalisti del settore - ha dato nuovi stimoli alla mia passione per il disegno del prodotto e degli interni. Attico è il risultato di questo percorso.

Se dovesse definire con tre aggettivi Attico, quali userebbe? E come definirebbe il suo approccio al progetto?
A colori. Emozionante. Fatto a mano. Posso definire il mio approccio al progetto come narrativo. Nella vita non mi piace molto l'arte oratoria e non mi sento così brava con le parole. Al contrario mi piace che sia il mio lavoro a parlare di me e della mia estetica.

Lei non solo progetta e produce oggetti con il suo brand ma lavora anche per aziende. Come cambia il suo metodo di lavoro nel momento in cui lavora su committenza o in collaborazione con altri?
Mi pongo ogni volta con estrema curiosità e rispetto di fronte al lavoro commissionato dai grandi brand. Il mio metodo è sempre lo stesso: dopo la prima parte di ricerca e di analisi - necessaria per conoscere la storia del marchio e i suoi codici stilistici e progettuali -, segue una fase più libera e istintiva, nella quale mi muovo all'interno del mio abaco di colori, materiali e forme fino a quando non trovo la chiave che mi permette di sfruttare al meglio il DNA del brand. Nel caso di aziende storiche, come Fendi per esempio, la fase di ricerca è un’emozione unica.

Uno dei suoi tratti distintivi è sicuramente il gusto per la sperimentazione sui materiali. Esiste, però, un materiale che considera d’elezione, che predilige?
Non ne farei una questione di preferenza ma piuttosto di materiali che conosco meglio di altri perché li ho già utilizzati in molti progetti. Mi piace, però, incontrare nel mio percorso nuovi materiali capaci di suggerirmi strade che non ho ancora esplorato.

Sul fronte della sperimentazione tecnica, invece, come giudica innovazioni come la stampa 3D?
Non penso che basti una stampante 3D per arrivare a un prodotto innovativo. Come tutte le innovazioni, può aiutare il progettista a ottenere risultati inaspettati e tecnicamente avanzati. Non ho ancora avuto occasione di approfondire l’uso di questo strumento, forse perché, per mia inclinazione, preferisco ricorrere a materiali o tecniche tradizionali per ottenere poi risultati dall'estetica contemporanea e inaspettata.

Quali sono le sue fonti di ispirazione? Chi sono i suoi maestri, i suoi modelli?
Le ispirazioni si nascondono ovunque: basta saperle vedere. I viaggi sicuramente offrono spunti privilegiati, adoro i viaggi-tour architettonici ma spesso gli spunti vengono dalla natura e da scenari incontaminati.  Altre volte l'ispirazione si trova a Milano, girato l'angolo di casa, in un dettaglio di un palazzo anni Trenta.  È sempre utile per me l’incontro con gli artigiani non solo per l’aspetto tecnico ma anche perché spesso mi dà lo stimolo necessario per avviare un progetto. Mi piace, inoltre, fare ricerca in settori trasversali al design come la moda o la gioielleria. I miei maestri sono tanti: da Carlo Scarpa a Le Corbusier, fino a Piero Portaluppi.

Rispetto al suo lavoro spesso si fa riferimento a un tocco femminile. Si ritrova in questa definizione? E le chiedo se più in generale esiste secondo lei una via femminile al design.
Sicuramente il mio mondo di riferimento si rifà a un immaginario femminile, legato ai miei ricordi, alla mia infanzia, alla mia estetica. Non penso, però, che esista un’identità di genere nel design. Molti uomini hanno un approccio che possiamo definire delicato e femminile e viceversa molte designer hanno un modo di approcciarsi più tecnico.

Lei è anche una collezionista di modernariato. Da dove nasce questa passione e quali sono le caratteristiche della sua collezione?
Come dicevo, la mia passione nasce dalle lezioni di storia dell'architettura che ho seguito all'università. In particolare quelle sugli interni di Scarpa, Loos e Le Corbusier. Poi è arrivata la voglia di possedere fisicamente alcuni pezzi che hanno fatto la storia del design. La mia collezione ha preso vita subito dopo la laurea con l’acquisto di una lampada da terra della Kartell di Bandini Buti degli anni '60. Non ho regole nello scegliere i pezzi che arredano la mia casa e il mio ufficio; devono, però, essere esteticamente belli e interessanti dal punto di vista dei materiali o dell'innovazione funzionale che nascondono. Possiedo solo pezzi di design italiano, soprattutto lampade.

Da appassionata senza nostalgie del passato e pensando ai grandi classici, qual è un oggetto per lei iconico? L’oggetto di design “perfetto”?
La lampada Chiara di Bellini per Flos per me è uno dei pezzi più iconici della storia del design. Un oggetto di design perfetto: la bilancia Terraillon di Zanuso che uso da dieci anni in cucina.

Il prossimo ottobre all’interno dei Saloni WorldWide Moscow sarà protagonista di una masterclass dal titolo “A conversation in colour”. Ci può anticipare qualcosa del suo intervento?
Sicuramente, oltre a dare una lettura personale dei miei lavori più importanti, vorrei usare il tema del colore per restituire il mio immaginario e il mio mondo di riferimento.

 

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