Antefatto
Quando mi sono laureato a fine anni ‘60 il design, per uno studente come me, era un fenomeno laterale riferito ad alcune figure oggi mitiche della scena milanese: Castiglioni, Magistretti, Mari, Joe Colombo e altri... Industrial Design era un corso abbastanza secondario (oggi direbbero forse “opzionale”) tenuto da Marco Zanuso con due assistenti non qualsiasi: Paolo Orlandini e Renzo Piano. Insomma, io pensavo all’architettura e anche al fatto che nella storia della architettura il design entrava un po’ di striscio, come protesi minoritaria della grande teoria razionalista legata al Bauhaus e al Movimento Moderno. Eppure in quegli anni grazie a Domus che se ne occupava (mentre l’altra rivista “obbligatoria” per gli architetti, Casabella, lo ignorava), cominciai a essere incuriosito dalla dimensione contenuta ma intensa e sperimentale dell’interior design e della scala umana del design di oggetti e arredi legati alla vita quotidiana e agli spazi dove si svolgeva. Iniziai allora a guardare al design come vera dimensione praticabile di una teoria originale e coinvolgente del progetto.
Fatto
Negli anni ‘60 le fiere commerciali specializzate quasi non esistevano. Il senso della modernità e del progresso materiale si mettevano in scena alla Fiera Campionaria di Milano dove fin da bambino mio nonno ingegnere mi portava a stupirmi con i miracoli della tecnica e della tecnologia applicata. Fu alla fine degli anni ‘60 che scoprii il Salone del Mobile che mostrava per la prima volta, in modo omogeneo, quel che cominciava ad accadere nel salotto buono della borghesia italiana. Succedeva infatti che all’evoluzione socioeconomica del Paese si affiancasse una mutazione culturale e di costume che richiedeva nuovi modelli di relazione e di rappresentazione. E accadeva che proprio nell’arredamento questa voglia di modernizzazione trovasse applicazioni sperimentali, progettuali e commerciali inedite e imprevedibili solo 20 anni prima. Il Salone del Mobile divenne la vetrina, il crogiuolo e la scena di questa mutazione dove la dimensione culturale e commerciale si fondevano virtuosamente.
Oggi ci sono i musei del design che cristallizzano in collezioni mute quel periodo notevole. I musei ci vogliono, lo so, ma non posso fare a meno di pensare che al tempo in cui venivano create opere e oggetti che sono oggi venerati un po’ come feticci, i musei non esistevano. Esistevano invece i mercati che interpretati virtuosamente sono i veri luoghi di incubazione della innovazione.
Incontro
Negli anni ‘70 lavoravo nelle riviste. Casabella prima (quella Radicale di Sandro Mendini) e MODO poi, sempre con Mendini. Da spettatore, commentatore, guastatore del mondo del design cominciai a disegnare e realizzare oggetti; come piccoli personali paradossi, provocatori e quasi delle riflessioni sulla condizione relativa e arbitraria dei linguaggi nel design, fino a quando Gae Aulenti mi coinvolse nel rilancio del marchio FontanaArte. Incominciavo a fare il designer. Cominciavo però a partire da un progetto organico di ricostruzione di una identità di marchio e non come a volte e spesso succede con un rapporto casuale e frettoloso con un cliente.
Ho da allora, e per 30 anni, avuto un rapporto ciclico e quasi costrittivo con la creatività ritmica annuale che il Salone del Mobile impone come obbligata vetrina di attualità, novità e innovazione. Che quest’ultima poi si dia è cosa rara, ma pare che non conti poi tanto in un mercato che da allora a oggi si è evoluto, dilatato, specializzato consegnando la professione del designer a una logica creativa che molto ha a che fare con i ritmi di produzione, consumo e obsolescenza linguistica del mondo della moda. Ma questa è storia più recente.
Ricordo
Dal 1980 sono frequentatore attento della kermesse cittadina che proietta Milano sulla scena planetaria come grande laboratorio di cultura, tecnica, estetica e costume. Una dimensione che ha superato largamente i confini del progetto di arredi e oggetti, ma che si configura come scenario di stili di vita e di cultura allargata dell’immagine e dell’antropologia dello spazio abitato. Preferisco a questa edonistica e spesso superficiale euforia la dimensione filosofica, sperimentale e riservata dei (miei) grandi maestri. Persone con le quali non ho quasi mai lavorato ma che, facendo e parlando, insegnavano. Uno di loro Ludovico Magistretti, che pure lavorava per il gruppo FontanaArte, passò durante il Salone del 1995 allo stand Schopenhauer (marchio di FontanaArte per l’arredo). Avevo quell’anno disegnato sia lo stand che due pezzi: una sedia da camera ridisegnata a partire da una intelligente soluzione inglese dell’800 e una sedia basata sulla tecnologia della piegatura di lastre e nastri di compensato multistrato. La prima si chiamava “Ometta” la seconda “Bianca”. Non erano prodotti di moda ma due esiti semplici e coerenti (non economici purtroppo) di ricerche concettuali sul tema della storia del comfort e della tecnica. Magistretti, “il Lodo”, generosamente e sinceramente si complimentò, forse felice che dei giovani raccogliessero da lui il testimone di un mestiere che come scopo avesse quello di produrre senso e non solo forme. Almeno così mi piace immodestamente motivare questo ricordo del Salone 1995.